Il "Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani", scritto dal ventiseienne Giacomo Leopardi nel 1824 e pubblicato solo nel 1906, mette al centro la scostumatezza della società italiana, manchevole di una sensibilità morale condivisa e ingessata nella memoria di un passato ormai consegnato definitivamente alla storia. In queste pagine, Leopardi non fa professione di progressismo, ma fotografa la mediocre realtà del suo tempo, che oscilla tra la nostalgia per gli antichi fasti della civiltà meridionale a cui apparteneva, e l'incapacità di stare al passo con la modernità settentrionale. Dopo quasi duecento anni dalla composizione del "Discorso", i mali denunciati da Leopardi sono ancora tutti presenti e forse persino più gravi. L'Italia, ubriaca del suo glorioso passato, sembra incapace di futuro. È relegata a comparsa sulla scena, a Sud del mondo, provincia, luogo antico destinato irrimediabilmente a perire sotto il peso dei suoi vizi atavici. Ma è proprio questo il destino che l'attende? È giunto davvero il tempo definitivo del Settentrione, con la sua razionalità tecnologica e industriale apparentemente invincibile? Dobbiamo sul serio abbandonarci alle «magnifiche sorti e progressive», all'etica del fare, al dominio della produttività a ogni costo? O, forse, proprio la lettura di queste pagine, inserite nel contesto più ampio della riflessione leopardiana, ci consente di recuperare dal nostro passato ciò che non passa, per proiettarlo in forme nuove nel futuro, prendendo sul serio il compito utopico di bruciare la vita nel fuoco di una bellezza inesauribile, in vista di quel mare infinito in cui, anche se il cuore a volte si spaura, è pur sempre dolce naufragare?