In questo sorprendente libro testimoniale, Mario Benedetti sembra volerci dire, con la sua sensibilissima e concreta parola, che una luce piana e discreta, una luce di umana verità, vive, sempre, anche nel dolore, nel senso acuto della perdita, nell'osservazione diretta o nel presagio stesso della morte. Utilizza elementi di un'esperienza personale radicata in luoghi e figure di una realtà intima e familiare, e li fa vibrare, nella loro semplicità materica e opaca, oltre i confini naturali, come emblemi vissuti di una condizione umana universale. Istituisce l'immagine di un suo doppio, di un sosia coinvolto nella cronaca infelice che si porta via nel tempo, o in un breve tempo, o in un tempo che è comunque sempre troppo breve, gli esseri umani che incarnavano i suoi maggiori legami affettivi, come la madre, il padre e un fratello, e riconduce tutto a un quadro di umile autenticità in cui si «impara a vivere poveramente», in cui il primo attore o sosia riesce, o vi è costretto da necessità, a «vedere nuda la vita». Nei suoi tremori, nei suoi umori cupi o risentiti, nella malinconia che lo pervade, pronuncia parole di saggezza persuasiva, di sofferta accettazione, affermando a malincuore che è comunque «giusto che io non veda questo mai più». Il dissolversi delle umane cose implica, inevitabilmente, anche il loro allontanarsi nel già stato, nel passato, della morte, e dunque, anche, «evapora il morire», mentre intorno l'inerzia dell'esistere prosegue il suo cammino nel «continuo affaccendarsi». Mario Benedetti sembra aver ascoltato, in Tersa morte , le celebri parole di Mario Luzi, «Quel che verrà verrà da questa pena», e dopo la potente orizzontalità di Umana gloria e i sigilli vertiginosi di Pitture nere su carta , verticalizza qui con energia sinistra e coinvolgente la nostra quotidiana avventura terrena, nel suo strenuo, eroico ripetersi nell'ininterrotta vicenda del coesistere di vita e morte, di incerto presente e di frammentata memoria.