Oggi siamo abituati a pensare il sacro come qualche cosa di non originario. Siamo soliti ragionare in questo modo in base ad una antica tradizione di pensiero, per la quale l’esperienza ed il concetto primigenei sono quelli compendiati dalla categoria dell’essere. Il sacro, perciò, ci appare come una qualificazione secondaria di ciò che si dà come ‘l’esistente’. In una tale condizione siamo spinti, di conseguenza, a ritenere che vi debba essere una qualche ‘potenza secondaria’ che sia al fondamento del sacro e che sia la vera ‘ragione’ della possibilità di intenderne il senso. Questa potenza la identifichiamo sostanzialmente in noi stessi. Ma, una volta assunta una tale direzione, al termine di un lungo percorso, il sacro finiamo per risolverlo, durkheimianamente, nelle potenze sociali, intese come qualcosa che proviene necessariamente dalla nostra azione e che tuttavia sovrasta l’individuo, sfuggendo, solo apparentemente, al suo controllo. A nostro parere questo tipo di concezione ci porta a delle conclusioni paradossali; perché il sacro lo avvertiamo da un lato come una potenza legata alle origini dell’esperienza umana e però subito anche come una semplice chimera sotto le spoglie della quale la sovrastante socialità afferma il suo primato. In ogni caso, alla fine dell’itinerario qui tracciato, ci accomodiamo in una concezione ontologica secondo la quale, il sacro appare come una categoria sviluppata per ragioni ‘mondane’, ovvero per ragioni di utilità sociale; mentre l’esistente si afferma come ciò che è dato in modo assoluto; ovvero nell’assolutezza del suo semplice essere. Cosicché il senso del nostro mondo, riducendosi solo al semplice fatto di ‘esserci’, finisce per non poter esprimere alcun senso, alcun valore, alcuna sacralità originaria.