«Nello sviluppo del mio individuo, della diversità, sono stato precocissimo; e non mi è successo, come a Gide, di gridare d’un tratto ’Sono diverso dagli altri’ con angoscia inaspettata; io l’ho sempre saputo» scriveva Pasolini nei giovanili «quaderni rossi». E questo sentimento di diversità che domina tutta la sua opera – coscienza della propria omosessualità, certo, ma anche un senso più vasto di spaesamento e di inattualità – troverà subito un nome: quello di poesia. È stato en poète che egli ha sempre svolto la sua molteplice e anche dispersiva attività di scrittore, di regista, di critico o di polemista: si pensi soltanto alla sua esemplare teorizzazione del «cinema di poesia». Narciso, dolceardente usignolo, eretico, martire, barbaro, animale senza nome o bestia da stile – a seconda delle maschere sublimi o infami assunte sulle diverse scene della vita – egli rimase sempre fedele, con eroica ostinazione, al ruolo di poeta, inteso in un senso che si potrebbe dire «romantico» e perfino «sacrale»: quello di testimone solitario di una dimensione altra, di verità che agli uomini non possono apparire se non come scandalo e bestemmia. Dall’introduzione di Francesco Zambon