Alla locanda del «Buon Corsiero» la vita procede come Robert L. Stevenson amava sognarla: con molti tricorni che appaiono e che scompaiono, carrozze che vanno e che vengono, matrimoni e corteggiamenti, marchese e servitori, osti, lacchè e stallieri. Ma ecco che all’improvviso un silenzio «come d’altri mondi» cala sugli uomini e sulle cose, e si mostra l’inesplicabile figura del Funambolo, pronto a esibirsi l’indomani nella piazza dell’innominato paese, su un filo teso fra il Rettorato e la torre dell’Orologio. Ma chi è il Funambolo? È un angelo, come ci appare al suo arrivo, o piuttosto un’incarnazione luciferina, come il suo ambiguo congedo pare insinuare? Solo questo è certo: è una creatura dell’altrove. Al suo passaggio tutto si sospende e trattiene il respiro. È come se ciascuno dei personaggi scoprisse in sé qualcosa che lascia attoniti e che soltanto la «discontinua presenza» del Funambolo fa affiorare, mentre «percorre il racconto come una traccia fosforescente, pervadendo gli eventi, le figure, la stessa natura, di un tremito che fa oscillare lievemente il narrato, senza intaccarne la superficie preziosa» (Turolla). Questo «squisito capriccio neosettecentesco» fu scritto da un diciottenne che celava caparbiamente il suo nome («nessuno sa il mio nome, nessuno...») e apparve, come una scheggia di altro pianeta, nella tormentata Italia del 1942. Oggi vi riconosciamo un romanzo di sorprendente compiutezza, distante da tutto – e anche dagli altri libri dello stesso D’Arzo. «All’insegna del Buon Corsiero» è apparso per la prima volta nel 1942.