«Ci sono delle persone che stanno tutte sul bordo dei loro occhi. Spuntano da lì. Non dipende dalle loro qualità interiori, magari altri, più ricchi dentro, hanno uno sguardo che non arriva fino alla pupilla, si ferma prima, chissà dove, che so, al diaframma, al petto, o da qualche parte nella testa. Io non so come lei veda, ma il suo sguardo si vede così tanto. Lei è tutto lì, sul bordo dei suoi occhi».
Si dice che quando si perde la vista si amplino gli altri sensi. Dev'essere per questo che a Barnaba, che sta per diventare cieco, la voce di Anne sembra di un «colore caldo e brillante, lucido di tenerezza».
Ma di Anne forse non ci si può fidare. È elusiva, inventa dettagli, e se deve dire che un vestito è giallo, non dice che è come un limone o un girasole, ma «giallo come l'amore legittimo, o l'adulterio che lo rompe».
Eppure Barnaba decide di farsi guidare dalla sua voce per le sale del museo di Reims, e di condividere con lei il suo segreto, l'ossessione per un celebre dipinto che lo ha spinto fin lì.
Il racconto di due solitudini che si incontrano e si riconoscono.
Una parabola cristallina sul potere evocativo della parola, sul sottile crinale tra capacità immaginifica e menzogna, ma soprattutto sull'esperienza vertiginosa della letteratura.
«È da quando ho saputo che sarei diventato cieco che ho cominciato ad amare la pittura ». Inizia così il racconto di Barnaba, un giovane ex ufficiale di Marina che a causa di una malattia «malcurata» sta perdendo progressivamente la vista. Ormai le immagini per lui si confondono in «un'opacità indistinta e chiara», una sensazione quasi tattile, tanto deve avvicinarsi alle cose, sfiorarle con gli occhi.
Barnaba ha deciso di sfruttare il tempo che gli rimane per fissare nella memoria alcuni capolavori dell'arte. È per questo che lo troviamo nel museo di Reims, tra le tele di Corot, Géricault e Delacroix. Ma Barnaba è lì per un quadro in particolare: il Marat assassiné di David. Quella tela, da quando l'ha vista in una riproduzione, è diventata un piccolo rovello: ha subito sentito che in qualche modo lo riguardava.
Mentre Barnaba si aggira per le sale del museo, aggrappandosi ai dettagli per dare una forma ai dipinti - come del resto si fa con le nuvole -, la voce accesa e leggera di una donna gli si affianca. È Anne, di cui Barnaba non riesce ad afferrare nemmeno il colore esatto degli occhi.
Anne ha indovinato il suo segreto e inizia a descrivergli i quadri che lui quasi non vede. Tra i due nasce come un gioco fatto di pudica sensualità, di intima tenerezza. Perché Anne in alcuni casi mente, racconta quello che non c'è, inventa particolari. E Barnaba lo sa.
Ma il raccontare in sé non è in fondo un po' mentire? O forse è la possibilità di vedere oltre il dato sensibile, attraverso la capacità immaginativa? La voce di Anne, allora, diventa il filo da seguire nel labirinto che è il museo, che è la letteratura, alla scoperta di passaggi segreti, di percorsi di senso.
E Barnaba si lascia condurre, prendendo a sua volta la parola per raccontare il «suo» Marat, in un continuo scambio di ruoli, quasi un codice amoroso.
La scrittura fluida e precisa di Daniele Del Giudice ci guida in questo racconto in cui i luoghi ancora una volta sono geografie dello spirito, e il dolore una porta da attraversare per attingere alla conoscenza.
Un testo breve in cui c'è tutta la potenza di un grande scrittore. L'atteso ritorno in libreria di un piccolo gioiello letterario uscito nel 1988 per Mondadori.