Nel 1962 la BBC decide di produrre un documentario sulla fauna selvatica in Nuova Zelanda, Australia e Malesia: un reportage che si collochi a metà tra «la guida turistica e la rappresentazione della realtà come la vediamo». Quando il progetto arriva tra le mani del celebre biologo naturalista Gerald Durrell, e di sua moglie Jackie, è chiaro a tutti che quel viaggio si trasformerà in un evento di tutt’altra natura. Cresciuto correndo tra i boschi dell'isola di Corfù e, perciò, dotato del grado di follia necessario a calarsi giù da un dirupo per osservare un «beccostorto», Durrell è uno spirito libero. Libero di sentirsi tremare la terra sotto i piedi e scappare a gambe levate mentre «il Grande Bertha» ̶ il geyser più antico della Nuova Zelanda ̶ scoppia in un «getto di vapore bollente del diametro di un albero». Libero di fermarsi sulle sponde di un lago e venire attorniato da una famiglia di weka che, come «scrupolosi, malinconici ispettori doganali», frugano con il becco tra borse e portafogli; o di riposarsi sotto eucalipti «dai rami brillanti come corallo bianco», per godersi lo spettacolo del tramonto australiano, prima di riprendere l'inseguimento agli opossum di Leadbeater. Come ogni lavoro del grande naturalista, anche questo è una scintillante moneta a due facce. Da un lato, la poesia con cui Durrell descrive gli animali (quasi fossero specchi in cui l’uomo può riconoscere se stesso) e il senso dell’umorismo con cui racconta di acquazzoni improvvisi, cameraman distrutti dal mal di mare o contrattempi con le jeep. Dall’altro, il suo proposito di scrivere un libro «ecologico» che mostri ai lettori quante specie siano a rischio estinzione, dacché si è diffusa, in Occidente, la dissennata abitudine di spingersi nelle zone più selvagge del pianeta per spazzare via la fauna con una caccia brutale e dissennata, o per introdurre nell’habitat locale specie che alterano profondamente l’equilibrio ambientale. Opera che unisce mirabilmente letteratura di viaggio e divulgazione scientifica, Un albero pieno di orsi non soltanto dimostra di essere ancora attuale a più di cinquant’anni dalla sua prima edizione, ma colpisce dritto al cuore, narrando di quella «grande maggioranza senza voto e senza voce» che «può sopravvivere soltanto grazie al nostro aiuto»: gli animali.