Quando Paul Valéry fu accolto, nel 1925, fra gli «immortali» dell’Académie française, si vide costretto – lui che non aveva grande stima per l’arte del romanzo – a pronunciare l’elogio di Anatole France, suo predecessore. In un ‘panegirico’ divenuto leggendario, non solo riuscì a parlare di France senza mai menzionarne il nome, ma con squisita perfidia contrappose le sue opere a quelle di Tolstoj, Ibsen, Zola, tacciandole di «leggerezza». Non c’è da stupirsi, ci avverte Kundera: difficilmente il romanziere rientra nella schiera di coloro che incarnano lo spirito di una nazione. Proprio in virtù della sua arte, il romanziere è per lo più «segreto, ambiguo, ironico», e – celato com’è dietro ai suoi personaggi – difficilmente si lascia ridurre a una convinzione, a un atteggiamento: quel che gli preme non è la Storia (e tanto meno la politica), bensì il «mistero dei suoi attori». Come Beckett, è libero, persino dal virtuoso senso del dovere che lo vorrebbe prigioniero di un Paese o di una lingua; come Danilo Kiš, respinge ogni etichetta, anche quella, proba e accattivante, di emigrato o dissidente; come Škvorecký, è pronto a rivolgere il suo «inopportuno humour» contro il potere e insieme contro il «vanitoso gesticolare» di chi protesta (ad esempio sulla scena della Primavera di Praga). E spesso finisce sulle liste di proscrizione che governano i gusti letterari: soprattutto quando, come Malaparte (cui Kundera dedica qui un folgorante saggio), ci rivela la cupa bellezza di una realtà diventata folle, la nuova Europa nata da un’immensa disfatta, e un nuovo modo, vinto e colpevole, di essere europei. Nel corso degli anni Kundera ci ha insegnato a guardare al romanzo come a una creatura fragile e preziosa, che vive di un’unica storia: ma mai ci aveva rivelato in maniera tanto nitida e affascinante la fisionomia del romanziere, e la sua occulta, vitale, dolorosa «fisiologia».