“I vivi si scoprono, ogni volta, al mezzogiorno della storia. Essi devono preparare un pasto per il passato. Lo storico è l’araldo che invita i defunti al banchetto”, scrive Walter Benjamin. Con i ritratti del Fayum è un po’ come se i defunti si invitassero da soli, senza invadenza, con la sola forza del loro volto. I ritratti del Fayum, i loro volti, ci guardano come da un luogo neutro, che non è né la morte né la vita, da un passato remotissimo che raggiunge come per miracolo il nostro presente. Rappresentare l’individualità di un volto è come fare il calco dell’individualità in se stessa: individualità di ogni volto, individualità dell’essere o dell’essere stati quel volto, ogni volta l’unico, l’ultimo, il solo fatto a quel modo, durante la vita e nella morte. Con l’arte del Fayum è come se la finitezza che spettava solo agli dei o ai re fosse stata concessa all’uomo, ma con dolcezza, senza alcuna appropriazione, come una patina estremamente sottile – una pelle, un pigmento, un incarnato. Con questi volti viene conservata e trasmessa sino a noi una scintilla della cultura dell’Egitto greco-romano, in una perennità rituale in cui il sacro – il legame della vita con la morte – si manifesta nella luce tenue, uniforme, in cui si schiudono i grandi occhi di donne, uomini, fanciulli. I ritratti del Fayum parlano, benché muti, della morte che accompagna la vita, ci dicono “quel che era l’essere”, l’essere vivi, in quel tempo e in quel luogo. Senza aneddoti, senza dettagli, senza messa in scena, fanno trasparire l’essenza nella superficie, in una lunga catena ove i vivi sono i morti e i morti i vivi.