Sotto lo pseudonimo Loris i viennesi incontrarono, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, saggi, recensioni e poesie che rivelavano immediatamente il segno della compiutezza formale, unito a quello di una rara maturità psicologica. Ma Loris era un diciassettenne, Hugo von Hofmannsthal, che con quegli scritti esordiva. Il mondo culturale di lingua tedesca rimase abbagliato dinanzi al profilarsi di quella silhouette, come se la civiltà letteraria di ciò che Nietzsche chiamò «décadence» avesse trovato finalmente, e con naturalezza, la sua piena espressione. Poi, nel 1902, Hofmannsthal scrisse la celeberrima «Lettera di Lord Chandos», testimonianza di una gravissima crisi, che lo aveva catapultato dalla parola perfetta alla parola impossibile, all’afasia. Non per questo Hofmannsthal cessò di scrivere, anzi si può dire quasi che da quella crisi nasca la sua grande prosa. Ma gli scritti posteriori celano in sé la traccia di quella lesione irreversibile e preziosa. In questo volume vengono raccolti trentanove testi, in senso lato saggistici, scritti da Hofmannsthal nel periodo 1891-1914. Essi includono perciò tutta la prima fase, nel segno di Loris, il testo-spartiacque che è la «Lettera di Lord Chandos», e numerosi scritti degli anni fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Pur nelle continue e delicate oscillazioni della prosa, che corrispondono ogni volta a violente e ben mascherate tensioni intime dell’autore, come quella fra una sorta di nebulizzazione del tutto in una miriade di gocce di fontana e, all’opposto, la ferma percezione del «contorno divino» delle cose, costante rimane in Hofmannsthal, sin dalla «pura magia» dell’inizio, un gesto: quello dell’inchinarsi dinanzi all’«ignoto che appare», sferzato da quell’apparizione a «percorrere l’intero regno della metafora». Come Hofmannsthal scrisse nel «Libro degli amici»: «Nel presente si cela sempre quell’ignoto la cui apparizione potrebbe mutare tutto: questo è un pensiero che dà le vertigini, ma che consola».