«Oggi mi è stato ordinato di prepararmi a partire immediatamente per Taranto per imbarcarmi sulla “Reina del Pacífico” diretta a Porto Said, dove devo raccogliere tremila soldati russi che hanno combattuto contro i tedeschi e poi si sono uniti ai partigiani». A coloro ai quali l’ultima pagina di «Napoli ’44» aveva lasciato qualche legittima curiosità sulle ulteriori avventure del sergente Lewis non resta che aprire questo trascinante volume autobiografico. Dove si scopre subito, ad esempio, che i prigionieri russi erano in realtà un reggimento di Tagichi, giudicati straordinari combattenti perché, in ossequio alle proprie credenze, non facevano alcuna distinzione tra la vita e la morte: e quando Lewis chiede cosa sia il buco che sfregia la coscia di un soldato viene a sapere che da lì, strappandola con le unghie, l’uomo ha preso la carne necessaria a sopravvivere nel lager. Questo è Lewis al suo meglio, testimone quasi involontario di eventi insieme atroci e bizzarri. Ed è solo uno spicchio del variegato ventaglio che si dispiega in questo libro, dove l’autore ci chiede di accompagnarlo in giro per il pianeta, entrando e uscendo di soppiatto dagli ambienti e dalle situazioni più disparate – la Cuba di Batista come il feroce Guatemala successivo alla sua tredicesima rivoluzione, l’Indocina francese come la Londra letteraria del secondo dopoguerra. Seguire Lewis, scopriremo ancora una volta, è molto più che viaggiare, è apprendere per osmosi, pagina dopo pagina, l’impiego delle sue stesse, micidiali armi: uno sguardo che non riesce a non vedere, un fiuto per l’inconsueto che ha pochi eguali, e un’inimitabile estetica della laconicità, ben condensata nel rapido commento a un incontro con Hemingway: «Non mi ha detto niente, ma mi ha insegnato anche più di quel che volevo sapere». «Niente da dichiarare» è stato pubblicato per la prima volta nel 1996.