«Non è vero che un bambino che si è bruciato sta lontano dal fuoco. È attirato dal fuoco come una falena dalla luce. Sa che se si avvicina si brucerà di nuovo. E ciononostante si avvicina.» Già nell'epigrafe del suo romanzo più autobiografico, Dagerman rivela che non vi è scampo per chi, come lui, è incapace di venire a patti con la vita, con i suoi limiti, i suoi compromessi, la sua inevitabile mediocrità. Assetato di intensità, ribelle a ogni ipocrisia, malato di assoluto, non può che continuare a bruciarsi al fuoco della verità e della passione, fino ad arrivare a non poter più perdonare a se stesso la «vergogna di vivere». Nel ventenne Bengt il venticinquenne Dagerman proietta l'immagine delle proprie contraddizioni e delle proprie angosce, quelle di un adolescente dalla sensibilità esasperata, in lotta coi fantasmi della sua solitudine. Nel vuoto lasciato dalla morte della madre, nell'amore-odio nei confronti del padre, nell'attrazione e poi ambigua passione per la futura matrigna, nel tentativo di suicidio e nella rivolta contro la «flaccida felicità» di vite meschine, non si può non riconoscere il riflesso appena distorto di una sofferta confessione. Il romanzo è in fondo la storia di un impietoso smascheramento, ma scavando nelle lacerazioni dei suoi personaggi, sezionando ogni impulso, ogni sentimento, la spaventosa lucidità di Dagerman ci tende una rete, costringendoci a scoprire che «i nostri pensieri mentono» e a seguirlo in quei recessi oscuri dove nascondiamo quel che non osiamo confessare a noi stessi. Sullo sfondo di strade innevate, di isole che danno l'illusione della felicità, sul mare verde o coperto dai ghiacci dell'arcipelago, le immagini si caricano di simboli, mentre la narrazione procede per frasi brevissime, come se le parole opponessero resistenza e avanzassero brancolando verso l'accettazione di quella verità che brucia «come l'eruzione di un vulcano».