Questo non è un libro di viaggio – «che assurda categoria!» esordisce Bruce Chatwin nell’entusiastica introduzione. Piuttosto, «un romanzo, un novel, nel miglior senso del termine – qualcosa di nuovo e fresco ... una storia di liberazione dalla claustrofobia della vita a New York in tempo di guerra». Fuggita dalla Francia negli Stati Uniti all’inizio del conflitto, Sybille Bedford sente d’improvviso il bisogno di ripartire, di parlare un’altra lingua, di mangiare cibo diverso, di trovarsi in un paese dal lungo e fosco passato ma quasi privo di un presente. La scelta cade sul Messico. «Estranea a ogni cliché» – sono ancora parole di Chatwin –, la Bedford non attinge al repertorio dello scrittore in trasferta, non indulge alla satira, non pontifica. E il risultato è una miriade di sorprese, di delizie a ogni pagina, a ogni passo, come se la Bedford avesse il rarissimo dono della visione immediata. Lo spirito nomade ereditato dalla madre e il raffinatissimo gusto di ascendenza paterna si coniugano per regalarci un vero «libro di meraviglie», una miniera di scorci storici e geografici colti da un’angolazione imprevista che tocca la verità. L’orecchio assoluto per la conversazione – ben noto a chi ha letto "Il retaggio" – capta, negli scambi fra angloamericani e messicani, surreali sfumature d’incomprensione, che raggiungono vertici di ilare nonsenso. Tutto il Messico geografico – caliente, frío, templado – si squaderna sotto i nostri occhi insieme a tutto il Messico storico, fissato in squarci diagonali che racchiudono minimi episodi illuminanti come epoche intere, e rivissuto in una memorabile galleria di medaglioni che ritraggono Montezuma e Cortés, l’imperatore Massimiliano e Benito Juárez. E così, partita dalla Grand Central Station, «splendida come le terme di Caracalla», Sybille Bedford finirà, nei panni di quell’animale sacro che è l’ospite, in casa del formidabile personaggio che dà il titolo al volume, rappresentazione ultima del gentiluomo d’altri tempi.