«Se alcuni abiti mi hanno deluso o tradito, altri mi hanno amato con la stessa fedeltà con cui li amavo io. Sono per me una vera ossessione. Sono l’inferno e insieme il paradiso, l’incanto e il tormento della mia vita». «I miei ricordi più belli io devo ancora viverli, il mio passato è ancora molto giovane». Così scriveva Christian Dior nel 1956, nel dare alle stampe questa sua autobiografia, ora per la prima volta pubblicata in italiano. Quasi un anno dopo, però, Dior moriva all’improvviso, e quelle pagine rimasero come la storia di tutta la sua vita. A originarle era stato un bisogno che lo stilista dichiarava sin dalle prime righe: «Esistono due Christian Dior: il Christian Dior pubblico e quello privato». Ed è per dire tutta la verità sul primo Dior, sul grande sarto di avenue Montaigne, che l’altro Christian Dior ha deciso di scrivere un libro di memorie. Proprio sul filo di questa ironica trovata narrativa della doppia identità Dior dipana i ricordi di una vita che ha segnato la storia dell’alta moda del Novecento. La voce narrante è quella del sarto schivo e pignolo, nato nella brumosa Normandia e trapiantato presto a Parigi, dove, dopo aver lasciato gli studi, insegue una vaga vocazione artistica, nel clima vivace della capitale francese. Entrato quasi per caso nella maison di Lucien Lelong, fu dopo la fine della guerra, nell’ottobre del 1946, che Dior fondò la sua casa di moda. È l’inizio di una rivoluzione: in poco meno di un anno il successo lo porta ad aprire una filiale a New York in cui si concepiscono abiti espressamente studiati per il mercato americano. Non a caso New Look era il nome della linea che lo lanciò e che affermò un’idea tutta nuova di femminilità: vitino di vespa, gonna a corolla, tessuti raffinati e accessori coordinati. Dior fu infatti il primo a lanciare per ogni collezione le linee di accessori di moda: borse, guanti, foulard, profumi. Una rivoluzione di costume vista da dietro le quinte: ecco cosa rende imperdibili queste pagine. Non c’è dettaglio che sfugga all’occhio e alla penna del geniale stilista: dal lavoro creativo e manuale del sarto alle superstizioni dello stilista di successo, dai vizi e capricci delle clienti alle piccole manie e fragilità delle mannequin, dalle esigenze del mercato al perfezionismo delle sfilate nella leggendaria maison. A chiudere questa girandola di ricordi eccezionali è una sorta di dichiarata riappacificazione di Dior con se stesso: «Sento che questa mia controfigura pubblica, il Christian Dior brillante e mondano, mi è servito e mi serve. Perché è lui che tiene in piedi tutta l’impalcatura, è lui che, anche con i suoi eccessi, fa vibrare le antenne del gusto. E finché ci sarà lui a proteggermi con la sua ombra, io potrò riservare a me stesso, Christian, la parte migliore. Quella che, dall’idea all’abito, è la mia ragione di vita: il mio lavoro. E così, a quasi dieci anni dalla nascita della mia casa di moda, io, per la prima volta, accetto di identificarmi con questo fratello, quest’altro me stesso che è il frutto della celebrità e che non mi somiglia».