Una formula ormai passata in proverbio e un filosofo bavarese in genere ricordato soltanto per averla coniata. Oggi, nel momento in cui la parte sazia del pianeta spinge al parossismo il discorso mediatico intorno al cibo, sostenere che «l’uomo è ciò che mangia» equivale a fornire allo spirito del tempo una parola d’ordine decisiva, o quantomeno un motto araldico adottabile a piacere da dietologi, cuochi, pubblicitari, politici, gente di spettacolo. Difficile preconizzare l’apoteosi attuale nel 1850, quando Ludwig Feuerbach azzardò quell’espressione in un articolo recensorio intitolato La scienza e la rivoluzione; e anche dodici anni dopo, quando ne esplicitò l’insidiosa radicalità e la densità simbolica nel saggio Il mistero del sacrificio, ovvero l’uomo è ciò che mangia, osservando come continuasse «a risuonare nelle orecchie di alcuni, ma solo come una nota stonata che offende l’onorabilità della filosofia e della cultura tedesche». Caduta da tempo l’accusa di lesa maestà del pensiero, i due testi, qui raccolti, conservano tuttavia la loro carica di felice insolenza nei confronti di ogni idea sublimante e disincarnata dell’uomo. Nello scritto più tardo, Feuerbach estende il perimetro del materialismo gastrologico alla divinità stessa: «sacrificare agli dei significa dar loro da mangiare». È l’atto di nascita della «gastroteologia».