“Se un uomo saggio chiedesse: quali sono le virtù moderne? E rispondesse alla sua stessa domanda con un elenco di cose che ammiriamo; se scartasse come “irrilevanti” gli ideali che per tradizione insegniamo, ma che non si trovano se non al di fuori della tradizione e dell’insegnamento – ideali come la mitezza, l’umiltà, la rinuncia ai beni materiali; se dovesse citare solo quelle eccellenze verso cui i nostri cuori sono quotidianamente portati, e dai quali è mossa la nostra condotta… in una lista come questa, quali virtù nominerebbe?”. Così inizia L’obbligo morale di essere intelligenti, il pamphlet di John Erskine pubblicato nel 1915, che ha avuto enorme influenza nel dibattito culturale americano della prima metà del secolo scorso. Professore di letteratura inglese alla Columbia University, Erskine ci racconta una breve storia dell’intelligenza, una storia di paradossi, superstizioni, diffamazioni: dall’eredità anglosassone, che la vedeva come un “pericolo”, a Milton, che senza troppi giri di parole le attribuì il titolo di “maggior pregio del Diavolo”.